Se il 2006, con il documento programmatico ufficiale del politburo pechinese “la politica della Cina in Africa”, è stato l’anno della svolta nelle relazioni sino-africane, queste sicuramente non sono nate nell’ultimo decennio.
Già nel XXV secolo l’ammiraglio Zheng He, a capo di una grande flotta navale, avendo avuto lo scopo di esplorare il mondo ancora sconosciuto, raggiunse le coste orientali dell’Africa. Questa presenza fu però molto limitata nel tempo, infatti poco tempo dopo quando ci fu un’inversione di tendenza, con il progressivo ripiegamento verso l’interno della politica cinese, tutti i rapporti con l’estero si atrofizzarono. Per trovare un rinvigorimento della politica espansionistica cinese, bisogna aspettare gli anni cinquanta. In piena guerra fredda, essendo in competizione diretta con l’Unione Sovietica, i due paesi cercavano di accaparrarsi l’amicizia e la guida politica/filosofica dei paesi terzomondisti (molti dei quali africani). Ecco che l’Africa rientrava tra le priorità politiche del comunismo cinese. In quest’ottica la Cina decise di dipingersi come paese essenzialmente povero, non come l’URSS, paese industrializzato che aveva alle spalle una storia imperialista, con una classe dirigente europea.
Come già detto, la vera svolta è avvenuta recentemente quando l’espansione industriale, dovuta all’apertura al mercato libero, ha creato per l’impero di mezzo un sempre maggiore bisogno di approvigionamento di materie prime e di risorse energetiche con cui alimentare le proprie industrie, nonché di mercati dove vendere i propri prodotti a basso prezzo. In quest’ottica l’Africa entra di diritto come obiettivo primario, essendo il continente il territorio più ricco sia di materie prime, sia di fonti di energia, sia un mercato affamato di merci a basso prezzo.
Diversamente dagli anni sessanta/settanta, ora l’espansione segue una diversa direttrice, non più una partnership accomunata dalla stessa ideologia, ma principalmente una relazione economica.
I principali scambi commerciali tra l’Africa e celeste impero riguardano: petrolio da Angola Sudan e Nigeria, cotone da Benin Togo Mali e Camerun, legname da Guinea Equatoriale Gabon e Liberia, cobalto dalla Repubblica democratica del Congo, platino oro e diamanti da Zimbabwe e Sudafrica, uranio dal Niger. In cambio dal paese asiatico giungono parternariati di cooperazione agricola, costruzione di strade, ponti, ferrovie, dighe, centrali energetiche, telecomunicazioni, armi, edifici pubblici, nonché merci di tutti i generi a basso prezzo.
Fino qui sembra una cooperazione che soddisfa tutte e due le parti in gioco, ma purtroppo così non è. Se è pur vero che, la Cina concede prestiti e sovvenziona costruzioni a fondo perduto, bisogna ricordare che, la maggior parte delle ditte cinesi operanti in Africa hanno solo dipendenti cinesi, soluzione che non promuove il lavoro locale e cambia le abitudini del luogo (vedi la presenza di alcool in Sudan). Altra nota dolente è la totale mancanza di un richiamo, verso i dirigenti africani, al rispetto dei diritti civili nei loro paesi. Altro problema che si nota a livello locale, sono le diseguaglianze che le merci cinesi causano all’economia africana; le merci asiatiche, costando molto meno di quelle locali, creano un dumping verso i prodotti autoctoni. Questo crea una dissoluzione di una parte dell’economia africana che, non potendo competere con le merci importate scompare; non rari sono i casi di rimostranze e sommosse nei mercati locali contro commercianti cinesi attuate da africani, segno di una insofferenza crescente.
Insomma, se sotto alcuni aspetti la Cina ha saputo riempire i buchi che l’Europa e gli Stati Uniti, hanno lasciato nel panorama africano, non vorrei che questa diventasse una nuova colonizzazione.
pbacco
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