Chi vuole oggi la fine della guerra? #shorthukrainianwar

Per finire la guerra ha bisogno, o del raggiungimento degli obiettivi che l’attaccante ha in mente, o la sconfitta sul campo sempre dell’attaccante.

Chi vuole oggi la fine della guerra?

Non può permetterselo la Russia, perché ad oggi sostanzialmente non ha avuto grossi guadagni dalle operazioni.

Non può richiederlo la chiesa ortodossa russa, tirata nella propaganda del governo non può di certo smarcarsi risultando anti-stato, non lo vuole perché è stata già da tempo uno dei pilastri del consenso di Putin.

Non lo cercano gli Stati Uniti, perché in questo momento stanno sfiancando economicamente e militarmente (anche se per procura ucranina) l’esercito russo.

Non ha voce in capitolo l’ONU, bloccato da veti ed interessi incrociati.

Non ha voce l’Unione Europea, perché non ha una voce singola.

Non ha voce la Santa Sede, che giustamente aspetta per vedere se può aiutare o peggiorare il suo ingresso nella mediazione (quella informale è già in atto).

Probabilmente la vuole una parte degli stati europei, quelli più dipendenti dall’economia russa; non la vuole l’altra pate degli stati europei, quelli più preoccupati dell’espansionismo russo.

Lo vuole la Turchia, che ha molti interessi in Ucraina e cerca un guadagno diplomatico della nuova linea imperiale.

Probabilmente lo vuole la Cina, che ha interessi economici forti in Ucraina; anche se in questa enorme frizione Russia-Occidente ha solo da guadagnarci, spostando sempre più il baricentro russo verso di lei.

E l’Ucraina?

pbacco

La Cina in Africa: i media

Circa un anno fa abbiamo analizzato l’aumento di interesse della Cina verso l’Africa (basta che cercate nel menù argomenti per trovare il post). Ecco, ora un nuovo tassello di questo avanzamento è stato creato. Da gennaio del corrente anno, la China Central Television CCTV, società statale cinese operante nel settore televisivo (una Rai in salsa pechinese) ha aperto la prima sede estera fuori da Beijing; non per caso, la città designata è stata Nairobi. La capitale keniota è stata scelta come HUB per lo smistamento delle notizie verso il continente nero. Prima apertura di una serie di sedi, che ora contano venti stati africani; tra gli ultimi uffici di corrispondenza troviamo Città del Capo e Kigali. Una presenza significativa ed in rapida espansione, considerando che alcuni media occidentali, anche per via di problemi di bilancio, sono stati costretti a tagliare uffici esteri. Non ultimo, il caso della nostra televisione di stato, che ha fortemente ridimensionato alcune sedi estere.

La televisione statale cinese invece, andando controtendenza ha accresciuto il suo interesse per il continente nero, seguendo così l’economia e le direttive del paese/partito.
Da febbraio, va in onda quotidianamente dagli studi di Nairobi “Africa Live”, un programma che a detta dell’emittente vuole cambiare il modo di vedere l’Africa.

L’azione cinese però, non si esaurisce in questo campo. Importanti investimenti, sono stati impiegati per migliorare tecnicamente le infrastrutture di comunicazione intra-africane, sia con aggiornamenti infrastrutturali delle reti televisive locali, sia attraverso la cooperazione tra industria cinese in ambito della telefonia e l’industria africana di rete mobile. Troviamo così il progetto China African News Service tra Xinhua (l’agenzia di stampa ufficiale cinese) l’Huawei (industria cinese di apparecchi per telecomunicazioni) e Safaricom (operatore africano di rete mobile) per la diffusione di contenuti anche attraverso i telefonini, così da poter raggiungere più capillarmente la popolazione rurale, che non dispone quasi mai di apparecchi televisivi, ma è raggiunta dalla rete cellulare. In questo solco troviamo anche corsi di formazione per giornalisti africani; non a caso la sede keniota offre lavoro a circa sessanta persone, tra tecnici e giornalisti, ma si pensa che a regime raggiungerà anche i duecento addetti.

Lo scopo finale cinese è quello di introdurre la sua cultura e i suoi valori, mostrare una immagine favorevole attraverso i media per raggiungere gli obiettivi prefissati, riducendo l’uso della forza, per sviluppare relazioni con gli stati e espandere la sua influenza globale.
Il famoso soft power in contrapposizione con le potenze odierne, prima fra tutte la BBC oltre che Al Jazeera ed in maniera minore anche RFI e CNN.

CCTV News Africa Live

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Mare caldo

Il mare cinese meridionale, uno dei più importanti perni dell’economia mondiale, è diventato anche un’importante snodo geopolitico. Ogni anno da questo lembo di mare transitano il 33% delle merci globali, e una quantità di greggio pari a sei volte quello che passa dal canale di Suez; senza dimenticare che, il fondale custodisce una grossa quantità di petrolio e gas naturale (fonte Avvenire).
È su questo terreno, termometro della visione della politica estera globale cinese, in cui si mostrerà la prossima faccia della tigre asiatica. Sarà ancora un soft power, come tutte le aspiranti potenze, in cui si cercherà la crescita pacifica, rispetto agli attriti coi vicini; o invece prevederà anche l’hard power, come le potenze affermate, cioè anche la possibilità dell’uso della forza per far valere i propri interessi?
In quest’area, che il gigante asiatico considera il giardino di casa, gli interessi economici-politici e di prestigio, sono molteplici e vengono rivendicati da altri attori. Oltre ai paesi geograficamente vicini, Vietnam, Filippine, Myanmar, Malesia Indonesia; troviamo anche paesi come l’India, forse l’unico antagonista regionale, oltre che pessimo vicino, e gli Stati Uniti d’America. Tutte queste nazioni, hanno aumentato gli investimenti negli armamenti, segno di una maggiore paura dei (o di uno in particolare) vicini.
Interessante, è il rapporto tra Hanoi e Pechino. Che le relazioni tra i due non siano amicali, si può notare anche dal riarmo vietnamita, che non vede di buon occhio la proliferazione del vecchio peggior amico; questa militarizzazione, passa anche da armamenti russi e dalla stabilizzazione dei rapporti con gli ex arci-nemici USA. Sì, perché tra i due paesi asiatici, non corre un buon rapporto già dal passato. Rapporti mantenuti tesi, seppur offuscati dalla coltre propagandistica, durante la guerra fredda. È in questo periodo, in cui il Vietnam scegliere come “chioccia” l’URSS. Ora con la rinascita economica, le problematiche riaffiorano; recentemente ci sono state delle scaramucce informatiche, una lotta dovuta proprio alle reciproche rivendicazioni su quest’area. Per ora, la “guerra” è virtuale, a suon di bit, preludio non si capisce ancora di cosa, ma certamente è un segnale dei rapporti tesi tra i due stati.
Insomma, il nuovo status geopolitico del dragone prevederà uno sviluppo pacifico, improntato alla collaborazione, o un’espansione aggressiva, imperniata sulla prevaricazione.

pbacco

DemoCRACzia

Scusate il gioco di parole, ma mi sembrava un titolo riassuntiuvo per il post: democrazia che si è rotta (crac).
Stando agli ultimi avvenimenti, soprattutto nei paesi occidentali, sembrerebbe che la democrazia, almeno quella conosciuta da noi, sia in crisi. Certamente il periodo di stagnazione o recessione economica non aiutano il clima sociale, sta di fatto che, la democrazia rappresentativa, è sotto “attacco”.
Questa crisi, è dovuta sia per fattori interni, sia da fattori internmazionali. Da una parte, è avvenuto uno scollamento della classe politica verso le aspettative della cittadinanza, istanze di una vera rappresentitività, unite alla crescente crisi occupazionale. Esempi, che sono sotto gli occhi di tutti, sono le varie forme di protesta sociale, gli indignados in Spagna, le proteste contro Wall Street e lo stato negli Stati Uniti. Un segnale è presente anche in Italia dove, recentemente, i quesiti referendari hanno avuto un notevole afflusso di votanti; linea confermata dalla quantità di firme per una possibile nuova consultazione sulla legge elettorale.
Sul piano internazionale, questo poco appeal viene diffuso dalla Cina, uno stato ibrido, dove l’economia è iper-liberalista, mostrando però, ancora una chiusura politica (seppur con qualche cambiamento). In questo caso il dirigismo politico, è una vera manna per gli investitori, che vedono un’economia in piena espansione, libera da lacci che, giustamente, regolano il lavoro nei paesi occidentali. Essendo il paese asiatico, un modello per gli stati dell’area, ci troviamo di fronte ad un’esportazione del modello di sviluppo, che prevede le due considerazioni citate.
Sarebbe però riduttivo affermare che in ogni parte del mondo ci sia lo stesso andamento, come già ripetuto, nel vicino oriente ed in Africa del nord, ci sono stati movimenti popolari, in cui uno dei fini era proprio maggiore libertà e democrazia.
Insomma, è una riflessione di chiaro-scuri, dove, popoli che per decenni sono stati assoggettati a tiranni si risvegliano, mentre noi, forse un po’ intorpiditi, ci lasciamo scappare diritti conquistati dai nostri nonni.

pbacco

Dalla Cina con furore

 Se il 2006, con il documento programmatico ufficiale del politburo pechinese “la politica della Cina in Africa”, è stato l’anno della svolta nelle relazioni sino-africane, queste sicuramente non sono nate nell’ultimo decennio.
Già nel XXV secolo l’ammiraglio Zheng He, a capo di una grande flotta navale, avendo avuto lo scopo di esplorare il mondo ancora sconosciuto, raggiunse le coste orientali dell’Africa. Questa presenza fu però molto limitata nel tempo, infatti poco tempo dopo quando ci fu un’inversione di tendenza, con il progressivo ripiegamento verso l’interno della politica cinese, tutti i rapporti con l’estero si atrofizzarono. Per trovare un rinvigorimento della politica espansionistica cinese, bisogna aspettare gli anni cinquanta. In piena guerra fredda, essendo in competizione diretta con l’Unione Sovietica, i due paesi cercavano di accaparrarsi l’amicizia e la guida politica/filosofica dei paesi terzomondisti (molti dei quali africani). Ecco che l’Africa rientrava tra le priorità politiche del comunismo cinese. In quest’ottica la Cina decise di dipingersi come paese essenzialmente povero, non come l’URSS, paese industrializzato che aveva alle spalle una storia imperialista, con una classe dirigente europea.

Come già detto, la vera svolta è avvenuta recentemente quando l’espansione industriale, dovuta all’apertura al mercato libero, ha creato per l’impero di mezzo un sempre maggiore bisogno di  approvigionamento di materie prime e di risorse energetiche con cui alimentare le proprie industrie, nonché di mercati dove vendere i propri prodotti a basso prezzo. In quest’ottica l’Africa entra di diritto come obiettivo primario, essendo il continente il territorio più ricco sia di materie prime, sia di fonti di energia, sia un mercato affamato di merci a basso prezzo.

Diversamente dagli anni sessanta/settanta, ora l’espansione segue una diversa direttrice, non più una partnership accomunata dalla stessa ideologia, ma principalmente una relazione economica.

I principali scambi commerciali tra l’Africa e celeste impero riguardano: petrolio da Angola Sudan e Nigeria, cotone da Benin Togo Mali e Camerun, legname da Guinea Equatoriale Gabon e Liberia, cobalto dalla Repubblica democratica del Congo, platino oro e diamanti da Zimbabwe e Sudafrica, uranio dal Niger. In cambio dal paese asiatico  giungono parternariati di cooperazione agricola, costruzione di strade, ponti, ferrovie, dighe, centrali energetiche, telecomunicazioni, armi, edifici pubblici, nonché merci di tutti i generi a basso prezzo.

Fino qui sembra una cooperazione che soddisfa tutte e due le parti in gioco, ma purtroppo così non è. Se è pur vero che, la Cina concede prestiti e sovvenziona costruzioni a fondo perduto, bisogna ricordare che, la maggior parte delle ditte cinesi operanti in Africa hanno solo dipendenti cinesi, soluzione che non promuove il lavoro locale e cambia le abitudini del luogo (vedi la presenza di alcool in Sudan). Altra nota dolente è la totale mancanza di un richiamo, verso i dirigenti africani, al rispetto dei diritti civili nei loro paesi. Altro problema che si nota a livello locale, sono le diseguaglianze che le merci cinesi causano all’economia africana; le merci asiatiche, costando molto meno di quelle locali, creano un dumping verso i prodotti autoctoni. Questo crea una dissoluzione di una parte dell’economia africana che, non potendo competere con le merci importate scompare; non rari sono i casi di rimostranze e  sommosse nei mercati locali contro commercianti cinesi attuate da africani, segno di una insofferenza crescente.

Insomma, se sotto alcuni aspetti la Cina ha saputo riempire i buchi che l’Europa e gli Stati Uniti, hanno lasciato nel panorama africano, non vorrei che questa diventasse una nuova colonizzazione.

pbacco

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Kung Fu Panda VS Pistolero Aquila

Guardando il nuovo film, Kung fu panda 2, mi è balenata in mente una domanda: come mai esiste un film americano, che tratta di “temi” cinesi, ma non esiste un film cinese, che tratta di argomenti americani?

Sembra una domanda sciocca, eppure contiene anche una lettura della realtà odierna. La Cina, la grande fabbrica del mondo (seppur con le sue delocalizzazioni), riesce a produrre tutto quello di cui il mondo consumistico ha bisogno, ma non riesce ancora a sfornare film o cartoni di fama mondiale. Questo vuol dire che, gli Stati Uniti, attraverso la grande industria di consensi mondiale, chiamata Hollywood, è ancora al primo posto come catalizzatore di idee; così come sono ancora americane le più prestigiose università mondiali.

Probabilmente i macchinari usati per produrre il film arrivano dalla Cina, ma l’idea che sta dietro al cartone, disegni, musiche sono made in USA.

Dopo la diplomazia del ping pong, magari viene usata la diplomazia del cartone, per cercare di far cadere il nuovo muro che, si è creato tra la prima super potenza globale e la nazione che cerca di strapparne il primato.

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Saggezza cinese

Per spiegare l’argomento di oggi, mi è venuta in mente un famoso simbolo filosofico cinese; parlo del simbolo taoista dello yin e lo yang. Anche se il simbolo non rappresenta il bene ed il male, questo però può essere preso ad esempio per spiegare che, anche in una parte scura si trova un pezzeto bianco, così come nella parte bianca eiste una parte scura.

Ed ecco l’accostamento odierno, la recente notizia del rapimento dei quattro giornalisti italiani, per fortuna concluso bene, ci mostra che anche nel campo dei così deti lealisti, esistono delle differenze; come dimostrano i fatti, il gruppo dei liberatori era formato da soldati fedeli al regime.

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Yin Yang

Pecunia non olet

Interessante articolo apparso su The Wall Street Journal, spiega come la tecnologia impiegata dai governi arabi per censurare internet, provenga da ditte occidentali. Non unico esempio, giusto per dimostrare che neanche noi siamo immuni, riecco l’articolo tratto da Corriere.it , un bel esempio di tecnologia militare italiana, venduta ai libici.

Altro esempio importante, che ha creato anche qualche problema diplomatico, è stato il famoso affare Google in Cina; con il motore di ricerca che pur avendo i server ad Hong Kong, dove vige una legislazione diversa dal continente, pur di non perdere il grosso business cinese, si piegava al volere del governo di Pechino.

Sono solo alcuni esempi, ma purtroppo non unici, di come il famoso detto latino: “il denaro non puzza”, sia ancora ben radicato nella cultura affaristica mondiale.

http://online.wsj.com/

http://www.corriere.it/

Alla fine su alcuni aspetti l’uomo, sia ben inteso in senso generale, non è mai cambiato dal tempo dei romani; azzarderei nel dire dalla sua nascita.

pbacco